Coming out lavorativo. Il motivo per cui ho scelto di non lavorare più nel pubblico, nel 2019, oltre ai compensi orari di anno in anno più bassi (sono arrivata a percepire meno di quello che percepirebbe una colf) è che gradatamente, anno dopo anno, le aule di coordinatori, infermieri, oss e medici che mi trovavo a guidare come docente erano sempre più arrabbiate. Per la carenza di personale, per la stanchezza, per una modalità di gestione mirata al risparmio, per un’alta dirigenza che non metteva il paziente al centro e non rispettava il loro lavoro che proseguiva, imperterrito, con sempre maggiore abnegazione. Mentre loro dovevano fare corsi su corsi per imparare a essere sempre più bravi (e li facevano, con il cuore, con l’anima, anche dopo aver smontato notte) qualcun altro, lassù, cambiava le regole un pezzo alla volta e rendeva sempre più difficile fare il loro lavoro. Quando lavoravo nel pubblico uscivo dalle mie 8 ore di corso con un senso di bellezza infinito per la qualità e l’altissimo valore professionale delle persone con le quali avevo condiviso le attività, da un lato. Dall’altro con un senso di smarrimento, di rabbia e di sensazione che prima o poi tutto si sarebbe ripiegato su se stesso, in un cataclisma. E questo mi faceva stare molto male. Ogni tanto sento ancora delle persone che lavorano nel pubblico e mi confermano che, nonostante il Covid, interventi strutturali a migliorare le condizioni di lavoro di chi si prende cura di noi non sono stati attuati quindi sentire discorsi come quello di draghi che i problemi che abbiamo in Italia dipendono principalmente dai no-vax la vedo come una frase adatta a celare quelli che sono i veri problemi.