La famiglia del bosco, post lungo perché la complessità non si può trattare a colpi di slogan.
La famiglia del Bosco ha scelto una vita “off grid”, letteralmente “fuori dalla rete”, in tutti i sensi, e questo comporta dei rischi. Non è un fenomeno nuovo: da sempre alcune famiglie decidono di vivere fuori dai circuiti convenzionali e, quando ci sono minori, l’intervento dei servizi sociali è pressoché prassi consolidata.
Quindi, entrare nella polarizzazione e nel benaltrismo è come tirare secchiate sui panni bagnati.
“Perché il frequentare pochi bambini di comunità di famiglie e simili è considerato pericoloso per lo sviluppo delle skill sociali dei bambini del bosco e ha conseguenze legali e il bullizzare un compagno fino a indurlo al suicidio invece non ha conseguenze sulle famiglie?”
“Perché intossicare un bambino con cibo spazzatura non ha conseguenze e intossicarsi con i funghi raccolti dietro casa sì?”
“Perché le cattedre scoperte fino a dicembre sono accettabili e la non regolarizzaIone dell’home schooling no?”
Queste alcuni dubbi letti in giro che riporto parafrasandoli.
Le norme di riferimento sociali esistono in tutte le organizzazioni e queste sono le nostre, che ci piaccia o meno. Chi sta off grid, sa che deve prendersi delle responsabilità e avere qualche attenzione in più.
Quindi i servizi sociali non sono malfunzionanti perché tolgono i figli a una famiglia che ha avuto delle condotte giudicate pericolose, ma al contempo costringono i minori a incontrare padri abusanti o a stare con madri profondamente compromesse a livello di salute mentale.
Semplicemente, essendo tra i garanti della rete, hanno gli strumenti per osservare in modo eccelso i comportamenti pericolosi fuori da questa e quelli dentro riescono a gestirli meno, perché sono più numerosi, perché sono più sistemici e le risorse sono limitate. Ma ci provano.
Quindi, al netto di Salvini che a questo giro probabilmente si travestirà da guardia forestale e andrà a trovare la famiglia per cavalcare l’onda emotiva di sentimento di ingiustizia che serpeggia tra i nostalgici del bagno fuori casa, è doveroso aprire gli occhi su quello che è il contesto in cui si è svolta questa vicenda; un momento storico di straordinaria delicatezza, in cui infanzia e adolescenza sono immerse in un clima di crescente ansia collettiva. Da un lato gli adulti, consapevoli che i loro figli con ogni probabilità non riusciranno a superarli né sul piano del reddito né su quello di qualità dell’istruzione; dall’altro i ragazzi, che crescono in un contesto che chiede loro soprattutto performance (scolastiche, estetiche, sociali, di possesso di beni) e che proprio per questo finisce per ammalarli.
Viviamo un’epoca in cui i livelli di ansia nei nostri giovani considerati “sani” sono ai massimi storici (e chi fa il mio lavoro o è educatore o ancora insegnante lo sa bene), il loro malessere psicologico diffuso continua a crescere e spinge chi ha un minimo di coscienza, a domandarsi dove abbiamo sbagliato, dove la “rete” sia fallata.
Oltre a ciò nelle ultime settimane si sono verificati due infanticidi che hanno scosso l’emotività a livelli altissimi, nelle città si registra una delinquenza minorile che coinvolge ragazzi provenienti da famiglie considerate “perbene” o “ben integrate”, la dipendenza da social e l’esposizione precoce e incontrollata di bambini sotto i 10 anni a contenuti estremamente ansiogeni o violenti o inappropriati sono in crescita, con molti bambini a cui viene consegnato uno smartphone senza filtri né supervisione.
Dentro questo contesto già carico, l’immagine dei “bambini del bosco” (bucolici, liberi, naturali, amati) allontanati dalla loro famiglia, ha avuto un impatto emotivo potentissimo al quale anche io non sono stata immune.
E allora, forse, è doveroso riconoscere che lo smarrimento collettivo nasce proprio da lì: dal desiderio segreto che quel bosco, almeno per un momento, potesse essere un posto sicuro.
E dal sospetto, altrettanto segreto, che nessun luogo, né dentro né fuori dalla rete, lo sia davvero più.
